INTERVISTA DI SAMI MODIANO
Superstite
di Auschwitz, Modiano è da vent’anni un testimone dell’Olocausto. Le sue parole
in vista del Giorno della Memoria che si celebra il 27 gennaio.
«Non dimenticate quello che è stato. Noi sopravvissuti abbiamo raccontato
e continueremo a parlare finché avremo forza, voi dovrete farlo quando non ci
saremo più». È un appello accorato, tra le lacrime, quello di Sami
Modiano, 92 anni, superstite della Shoah. In questa settimana in cui
il 27 gennaio sarà celebrato il Giorno della Memoria, è affaticato, pieno di
impegni, chiamato a testimoniare o rilasciare interviste da mattina a sera. Ma
non si sottrae e, parlando sempre con trasporto e infinta dolcezza, cerca di
rispondere a tutti, con una sola richiesta: «Raccontare quello che ho visto ad
Auschwitz-Birkenau, nient’altro, niente politica». È coetaneo di Liliana Segre,
ha vissuto lo stesso orrore e come lei ha deciso, dopo molti anni di
silenzio, di testimoniare. È anche consapevole che non sarà lo stesso
quando gli ultimi superstiti non ci saranno più, ma si dice meno pessimista
della senatrice a vita. Quest’ultima ha espresso la forte preoccupazione che
«tra qualche anno sulla Shoah ci sarà solo una riga nei libri di storia, poi
neanche quella» e che attorno al Giorno della Memoria ci sia una certa
stanchezza: «La gente già da anni dice “basta con questi ebrei, che cosa
noiosa”».
Lui nacque a Rodi, allora sotto il dominio italiano, e da lì
fu deportato ad Auschwitz-Birkenau, dove perse suo padre Jakob e sua sorella Lucia.
Il Giorno della Memoria si celebra il 27 gennaio, la data in cui nel 1945
l’Armata Rossa entrò nel lager. Che ricordi ha?
«Nei giorni precedenti la liberazione mi trovavo a Birkenau.
Noi prigionieri vedevamo i tedeschi molto preoccupati dall’avvicinarsi
dell’esercito russo fino a che organizzarono la cosiddetta “marcia della
morte”, il trasferimento forzato di chi era ancora in vita verso altri lager
sempre più a ovest. Il 17 gennaio iniziarono intanto a spostarci verso
Auschwitz, a circa 3 chilometri da Birkenau, nello stesso complesso
concentrazionario. Nonostante fossi stremato e non riuscissi più a reggermi in
piedi, Qualcuno dall’alto ha voluto che non morissi».
Cos’è successo?
«Avevo 14 anni ed ero arrivato a pesare 23 chili. Camminavo solo perché
sentivo dentro di me le parole di mio padre. Prima di consegnarsi senza più
speranze all’ambulatorio di Birkenau, mi aveva detto: “Tieni duro Sami, tu ce
la devi fare”. Ma era notte, c’erano 30 centimetri di neve e io avevo solo un
paio di zoccoli di legno, una divisa e un cappello a righe. Caddi. Sapevo che
avrei ricevuto il colpo di grazia perché nessun testimone doveva rimanere in
vita. Mi misi le mani in testa. Ma ci fu un gesto che non ha spiegazioni in una
situazione in cui non si avevano forze neppure per sé stessi: due prigionieri,
leggermente più grandi di me, con qualche chilo in più, mi sollevarono e
trascinarono fino ad Auschwitz. Penso che poi, resisi conto che non sarei riuscito
a proseguire la marcia della morte, abbiano deciso di lasciarmi lì. Mi
appoggiarono a una montagna di cadaveri e così, credendo che fossi morto, i
tedeschi non mi spararono. Aprivo ogni tanto gli occhi e vedevo solo corpi.
Fino a che notai, davanti a me, un fabbricato in mattoni. Lo raggiunsi, poi mi
risvegliai in un ospedale allestito dai russi, affidato a una ufficiale medico
che mi curò con premura».
Ad Auschwitz
incontrò Primo Levi «Scambiammo
qualche parola proprio in quella fase della liberazione, quando rividi anche il
mio amico Piero Terracina, che ci ha lasciato nel 2019. Eravamo tutti
sofferenti, non sapevamo quello che sarebbe stato di noi. Personalmente, per
essermi salvato da quella fabbrica della morte che era Birkenau, mi sono a
lungo sentito in colpa, mi percepivo come un privilegiato. Mi battevo il petto
e mi domandavo: perché io? Ci ho messo tanto tempo, poi ho trovato una
risposta: sono sopravvissuto per testimoniare».
Domanda di una studentessa
La preoccupano il negazionismo o il rischio di
una banalizzazione della Shoah?
«Certamente mi allarmano e rattristano. Ma in
generale sono ottimista che, quando non ci saremo più io o Liliana Segre o gli
altri sopravvissuti, ci saranno i ragazzi: la speranza del domani. Non sapete
quante lettere e telefonate io riceva da loro. Sono stato a lungo demoralizzato
e chiuso in me stesso, ho attraversato lunghi periodi di depressione, ma tutto
è cambiato quando ho iniziato a parlare e, da vent’anni a questa parte, sono un
uomo più felice. Quando sarà il mio momento me ne andrò in pace sapendo di
avere lasciato ai giovani la mia testimonianza. E non solo a loro, anche agli
insegnanti e a tutte le persone volenterose. Promettetemi che continuerete a
raccontare».
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